Placide isole, pallottole con le ruote e conigli feroci: sunto ermetico del mio viaggio in Canada

Harry Jerome – A statue of a local Olympic runner (Brockton Point, Stanley Park)
Harry Jerome – A statue of a local Olympic runner (Brockton Point, Stanley Park)

Le vacanze del 2012 sono state diverse per tantissimi motivi. Il minore fra tutti è che sono partito da solo per la prima volta nella mia vita, seppur questa cosa si può dire vera solo da un punto di vista esclusivamente fisico.

Sono atterrato a Seattle in un caldissimo principio di Agosto e, dopo i soliti controlli di routine, ho fatto conoscenza con la mia inseparabile compagna di viaggio. Una piccola economy car rossa a 2 porte che mi ha accompagnato per tutto il Canada. All’inizio era, per me, solo “l’auto“. Mentalmente mi riferivo a lei in questi termini ed era, almeno nel breve lasso di tempo trascorso in città, più un costoso ingombro che un utile strumento. Pochi e costosi parcheggi, sensi unici, traffico. Insomma l’aver preso a Vancouver un ostello sulla spiaggia era stata un’idea molto figa, o almeno questo era quello che avevo pensato all’inizio prima di rendermi conto di quanto fosse lontano dal centro cittadino.

Lasciata Vancouver l’economy car è diventata fondamentale per l’esplorazione di questo bellissimo Paese rivelandosi presto, però, del tutto inadeguata. Le strade erano spesso costituite da una interminabile serie di tornanti che si arrampicavano sulle montagne canadesi e che venivano percorse lentamente da colossali camper o da puzzolenti camion. In salita la macchinetta gli arrancava dietro non riuscendo a raccogliere la sufficiente spinta per sorpassare mentre in discesa, i limiti di velocità estremamente bassi, limitavano le mie manovre con analoghi risultati. Il primo giorno riuscii a percorrere i km che mi ero prefissato solo sforando notevolmente sulla tabella oraria e arrivando alla mia prima tappa troppo tardi.

Soffrivo quasi fisicamente di questo mio grosso limite, avevo bisogno di macinare chilometri e non solo per la necessità di esplorare ma soprattutto per quella di fuggire come se fossi inseguito da qualcosa di invisibile che non ero ancora in grado di decifrare né, tanto meno, di affrontare.

Il secondo giorno, uscito dall’ostello, mi fermai per qualche minuto davanti alla macchina. Era mattino presto e la carrozzeria, solo lievemente impolverata, brillava riflettendo i primi raggi del sole. Io fissai lei nei fanali e lei me negli occhiali da sole. L’accordo era stato tacitamente stretto.

Con la stipula dell’accordo io avevo modificato il mio approccio con la strada e la macchinetta guadagnato il suo nome: Red Bullet.

I limiti di velocità non avevano più valore per me (nota per la polizia: si tratta di una ricostruzione di pura fantasia e fortemente romanzata) e sfruttando le discese per acquisire velocità, similmente a come fa un satellite che usa il colpo di frusta di un pianeta per spingersi lontano nello spazio, riuscivo finalmente a superare tutti gli automezzi che mi si paravano davanti in salita. Tachimetro saldamente piantato sul fondo scala, Red Bullet mi conduceva regolarmente in orario a destinazione.

Una vacanza in Canada, però, non è (almeno per me) una occasione per riposarsi. Ogni tappa era un luogo da esplorare, una scarpinata da fare o una arrampicata in montagna. Dopo la prima settimana, complice il poco sonno, i chilometri macinati a piedi e in macchina, la stanchezza incominciò a farsi sentire. Dovevo trovare un modo per rimanere sveglio al volante e visto che la musica tendeva a farmi addormentare, lo trovai nei podcast del Ruggito del Coniglio. Li ascoltavo già da tempo ma, purtroppo, in estate la trasmissione non veniva mandata in onda per cui dovetti affidarmi alle loro registrazioni. Per vari motivi non riuscivo ad avere sul cellulare che gli stessi ultimi 10 episodi mandati in onda prima della interruzione estiva della trasmissione e che, a furia di ascoltare e riascoltare, imparai quasi a memoria.

La mia fuga mi portò, verso la fine del viaggio, a Quadra Island. Non so perché ma tra i frammenti di vita passata che spesso percorrono i miei pensieri c’è quello in cui arrivo al porto da cui partiva il traghetto. Ci sono poche macchine in attesa, la gente è seduta fuori a godersi il fresco o sdraiata sul prato. Lascio l’auto in fila e vado nel piccolo ristorante a conduzione famigliare che si affaccia sul canale. Nel locale una coppia sta mangiando mentre una giovane signora si avvicina per prendere il mio ordine. E’ gentile e mi consiglia una zuppa buonissima che mangio osservando il canale attraverso la vetrata sporca.

Il traghetto alla fine mi porta a Quadra Island, una minuscola isola di 35km di lunghezza per 2500 abitanti che si trova ad est di Vancouver Island. Il posto dove alloggio è una grossa proprietà nella quale si trovano (almeno) tre strutture indipendenti: la grossa casa patronale a due piani che mi viene concessa interamente (sarebbe dovuta essere un ostello ma ero l’unico occupante), una piccola casetta in riva al mare che prende una coppia di tedeschi e una terza casetta in cui dorme la proprietaria con il suo vecchio cagnetto.

Quadra island
Quadra island

Il panorama che si gode dalla finestra è bellissimo: le onde tentano caparbiamente di conquistare la terraferma riuscendo solo a infrangersi su alcuni vecchi tronchi abbandonati sulla spiaggia generando, così, un tenue e rilassante sciabordio. Un movimento costante, ripetuto senza fretta all’infinito

Non c’è più bisogno di correre perché capisco che alla fine ero stato raggiunto e che, comunque, scappare era stato inutile perché non si può scappare da sé stessi.

Potevo finalmente fermarmi a riposare. La fuga era finita.

Per il momento.

Se volete dare una occhiata alle foto di quella vacanza non vi resta che puntare il vostro browser a questo indirizzo https://www.flickr.com/photos/madgrin/sets/72157632365946553

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